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Guido, monaco benedettino, visse nell’XI secolo e fu insegnante di teologia e musica nella scuola annessa alla cattedrale di Arezzo. Nella prima sezione della Epistola ad Michaelem egli descrive sinteticamente la cosiddetta solmisazione. Giova ricordare come nel Medioevo, e in particolare nel Dialogus de musica attribuito ad Oddone di Cluny, le note venissero indicate con le lettere dell’alfabeto (A=la; B=si; C=do; D=re; E=mi; F=fa; G=sol) e l’odierna denominazione fu un’invenzione didattica di Guido derivata da un inno a S. Giovanni Battista (patrono dei cantanti), composto probabilmente dallo stesso monaco1. Ogni emistichio del canto iniziava su una nota differente e più alta rispetto alla precedente.
(Ut queant laxis – XI secolo) Il principio fondamentale su cui si basa la solmisazione è l’esacordo, cioè una serie di sei suoni disposti secondo intervalli stabiliti (tono, tono, semitono, tono, tono) e denominati ut, re, mi, fa, sol, la. Nella lettera al confratello Michele, Guido descrive l’ingegnoso espediente didattico da lui stesso messo a punto per insegnare ai suoi discepoli a intonare con sicurezza e facilità gli intervalli. La successione delle sei sillabe non stabiliva in alcun modo l’altezza assoluta dei suoni ma fissava soltanto i rapporti intervallari fra suono e suono con l’intervallo di semitono esattamente al centro (indicato sempre con le sillabe mi-fa). Per quanto concerne la solmisazione, era possibile indicare stesse classi intervallari con gli stessi nomi (ad esempio la quarta giusta T-T-S poteva essere chiamata ut-fa sia su C-F come in G-c o in F-b mollis). L’esacordo aveva lo scopo di ricordare ai cantori che le varie classi intervallari potevano essere raggruppate e memorizzate in maniera semplice. Innanzi tutto la sua funzione era pedagogica e mnemonica piuttosto che teorica. Guido probabilmente non aveva interesse alla solmisazione se non come strumento pedagogico da impiegarsi ad un elementare livello dell’istruzione musicale (pro junioribus) in quanto negli stadi successivi sarebbe stato abbandonato. Peraltro l’avversione di Guido per il si bemolle, considerato effeminato e lascivo, ci fa ipotizzare che egli non l’avrebbe incluso nella pratica della solmisazione e che, pertanto, avremmo avuto solo due esacordi e non tre. Il Gamut o mano guidoniana, ovvero scala, comprende 20 suoni: dal suono gamma ad ee. La notazione alfabetica indicava i suoni reali (claves) gravi (litterae majores et capitales), acuti (litterae minores et acutas) e superacuti (litterae geminatas sive excellentes) mentre gli esacordi (deductiones) determinavano invece le voces ossia gli intervalli tra i gradi della scala. Ogni esacordo (deductio), avente nel mezzo l’intervallo di seconda minore (semitono diatonico pitagorico), inizia rispettivamente su G, C, F, G, c, f, g e sono definiti: esacordo naturale (se inizia su C), molle (inizia da F ed ha il b molle o b rotondo) e duro (parte da G e impiega il B quadrato). Il sistema della solmisazione assolveva due compiti ben precisi: da un parte permetteva di cantare a prima vista e dall’altra consentiva la memorizzazione della musica. Come nello studio della retorica per memorizzare i discorsi gli oratori impiegavano la mano, così allo stesso mezzo ricorrevano i cantori per imparare a memoria le melodie. La mano guidoniana nasce quindi come strumento per la memorizzazione.
Come si evince dalle figure, ad ogni giuntura della mano (locus), iniziando dal pollice e proseguendo in senso antiorario, corrisponde una nota della scala indicata dalla doppia nomenclatura (claves + voces). Ogni nota è perciò composta dalla lettera dell’alfabeto e dalla sillaba (o sillabe) dell’esacordo (o esacordi) di riferimento. Ad esempio il sol (GeSolReUt) sul primo spazio in chiave di basso ha la seguente proprietas: Ge rappresenta il suono reale in notazione alfabetica (clavis), sol il suono dell’esacordo naturale che parte da C, re il suono di quello molle che inizia da F e ut è il primo suono dell’esacordo duro che inizia su G. Conoscere la proprietas di ogni nota aiutava il cantore nel procedimento della mutazione, ossia nel passare da un esacordo all’altro per cantare melodie che superavano l’ambito melodico di una sesta (l’esacordo). Distinguiamo la mutazione esplicita o vocale da quella implicita o mentale. La prima, per principianti, consiste nel pronunciare sia la sillaba del vecchio esacordo e poi quella del nuovo esacordo. Nella mutazione implicita, invece, il cantore pronuncia mentalmente la sillaba dell’esacordo su cui stava cantando, ma di fatto intona la sillaba del nuovo esacordo. I cantori sapevano che nell’ascendere si mutava in re, mentre discendendo si mutava in la come possiamo notare nel seguente esempio tratto dal trattato musicale “La Cartellina Musicale” (Venezia 1615) dal monaco olivetano Adriano Banchieri (1568-1634):
Il cantore, dopo aver appreso la mutazione, seguiva queste tre ulteriori regole pratiche: 1) dopo aver osservato l’armatura di chiave, sapeva che, in assenza di alterazioni, avrebbe cantato negli esacordi duro e naturale, e che, in presenza di un bemolle, avrebbe impiegato gli esacordi molle e naturale; 2) era auspicabile rimanere su un singolo esacordo il più a lungo possibile e, se la melodia superava di una nota il la dell’esacordo, tale nota sarebbe stata cantata come fa senza mutare esacordo2; 3) se non era più possibile rimanere sull’esacordo, era necessario mutare nell’esacordo più consono. Martin Agricola, nel trattato “Musica Choralis Deudsch” (Wittenberg 1533), fa un’ulteriore distinzione sulla qualità delle sillabe guidoniane (voces). Egli, come Elias Salomonis nel 1274 in Scientia Artis Musice3, definisce ut e fa voces molles perché devono essere cantate in maniera dolce e gentile (o femminile), re e sol voces naturales in quanto non hanno un suono chiaro e definito (neutro) ed, infine, mi e la voces durales perché hanno un suono più duro e robusto (o maschile). È chiaro pertanto come la solmisazione rappresentasse anche un sicuro strumento di interpretazione musicale. Occorre aggiungere che questo sistema consentiva anche di aggiungere quelle alterazioni che non erano scritte dai compositori e che non rientravano nel Gamut. Tutte le note (musica recta) che non rientravano quindi nei suoni della “mano” appartenevano alla cosiddetta musica ficta, ossia alla musica falsa.
1 - L’inno originale, peraltro impiegato come tenor negli inni polifonici, era questo: 2 - Nota super la semper est canendum fa. Questo principio è una causa necessitatis, ossia è una causa necessaria per non mutare esacordo. Oltre alla causa necessitatis, le regole della musica ficta prevedevano anche le causae pulchritudinis, ossia quelle note che venivano alterate per la bellezza. 3 - «E talis est naturae, quod virilissimi & rigidi valoris est, & patitur mi, & la, & nihil aliud, & semper plangatur. F muliebrem consensum & naturam feminei sexus habet, nec potest cantari in ea nisi ut & fa, & quocumque modo cantor indigeat F. sive ascendendo, sive descendendo, ipsam humiliare oportet & ipsam mollificare». |
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